Rosa, nata il ventuno a primavera, patrimonio di inestimabile valore

Targa commemorativa di Rosa Balistreri

Rosa, nata il ventuno a primavera, patrimonio di inestimabile valore

 

Rosa Balistreri, figlia di una “terra ca nun senti”

Di Cettina Callea

“Sono nata il ventuno a primavera…” è l’incipit di una poesia che la milanese Alda Merini dedica a se stessa.

Ma le stesse identiche parole si adattano, forse non casualmente, ad un’altra grande sensibilità artistica, che come Alda, venne al mondo nel primo giorno di primavera. Si tratta di Rosa Balistreri che, però, nacque a Licata in una delle case del dedalo di vicoli della Marina.

Donna dalla vita travagliata, rude nei modi e roca nella voce, ma sensibile nell’animo, viene considerata oggi, una delle più grandi voci nel panorama della musica folk italiana. Il “folk” è stato erroneamente considerato un tipo di cultura subalterna, ma come scrive il Prof. Emilio Paolo Carapezza nella prefazione della biografia di Rosa, scritta da Cantavenere, folk significa sapienza del popolo, “sapienza più profonda di qualsiasi cultura, e del popolo intero, senza distinzioni di classi”.

E la grandezza di Rosa, per anni non riconosciuta nella sua città natale, consiste proprio nell’aver espresso, con i suoi canti, sentimenti non solo personali ma estensibili a un popolo intero, non solo riferibili a situazioni soggettive ma a una realtà universale. Canti densi di passioni, senza mezze misure, estremi, ribelli, mai rassegnati. Canti di dolori personali e sociali, canti che rappresentano appieno la storia, la cultura, i colori, i sapori, gli odori, le contraddizioni della Sicilia, che mai sarebbero potuti nascere se Rosa non fosse venuta al mondo in questa città e in questa terra. Ciò che oggi rende i suoi canti dei classici della musica folk è il fatto che conservino ancora messaggi e tematiche straordinariamente attuali.




“I pirati a Palermu” racconta di un’ invasione pirata in Sicilia, una delle continue depredazioni che da sempre, nel corso della storia, la Sicilia e i Siciliani hanno dovuto subire. La storia oggi si ripete: trivelle, Muos, selvaggi parchi eolici, rifiuti, non sono altro che ennesimi tentativi di “arrubbari lu Suli”, di privarci del sole, del mare e della bellezza dei nostri paesaggi. “Terra ca nun senti” è una denuncia del fenomeno della disoccupazione e dell’emigrazione, che oggi, come altre volte in passato, costringe i figli della nostra terra a tentare di trovar fortuna altrove. Suonano forti e crudeli le parole “terra ca nun teni, cu voli partiri e nenti cci duni ppi farli turnari”, cosi come il verso “Maliduttu cu t’inganna promittennuti la luci e a fratellanza” potrebbe essere un pesante anatema contro quei politici imbroglioni che continuano ad illudere e deludere le speranze della gente.

E poi il lamento di un amore passionale, estremo che all’assenza dell’amato preferisce di gran lunga “la morti e non chistu duluri”. E ancora la religiosità tutta siciliana de “U venniri Santu”, in cui il Cristo umanizzato, altri non è che un amico tradito, e il canto diventa grido di una madre disperata, toccando l’acmè nel ritornello “Giuda, Giuda tradituri, tradimentu a mmia facisti e ppi trentatrì dinari a me figliu ti vinnisti”.

Oltre che dei sentimenti Rosa è la cantatrice delle tradizioni, il Venerdi Santo per l’appunto, che per noi Siciliani è una delle celebrazioni religiose maggiormente attese e sentite. Per non parlare della ricchezza del vernacolo presente nei canti che ha interpretato: “levatilla ssa ricciata ca mi pari na vera criata”, in cui vi è la presenza di criata, che deriva da criada uno dei tanti termini che noi siciliani abbiamo ereditato dai nostri antenati spagnoli. Insomma, uno scrigno di tesori, le canzoni di Rosa svelati e mostrati dalla sua voce intensa “lirica e tragica, tutta fuoco e fiamme colorate”.

Rosa, nata il ventuno a primavera, la cui opera , patrimonio di inestimabile valore merita di essere custodita e tramandata dalla città che le ha dato i natali.

 

 

 

 

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